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domenica 28 settembre 2008

La crisi indotta dalla finanza fine a sé stessa

Molto volentieri ospitiamo un intervento dell'Ing. Marco Benucci, Vicepresidente nazionale dei giovani imprenditori di Confcommercio
Vorrei offrire alcune considerazioni da imprenditore sulla crisi finanziaria internazionale. Per farlo, però, devo fare alcune premesse. Troppe volte – infatti – il grande pubblico confonde i finanzieri con i manager e con gli imprenditori perché troppi personaggi economici assumono comportamenti da finanzieri pur continuando a dirsi imprenditori.Il finanziere opera sui mercati finanziari acquistando e vendendo denaro o prodotti similari quali azioni, obbligazioni e derivati. Scambia cioè denaro con denaro di forma diversa per trarne profitto, preoccupandosi non tanto dell’uso che si fa di tale denaro quanto del tasso di remunerazione dell’investimento operato. Il finanziere – per la natura stessa degli investimenti da lui compiuti – tende a ragionare sul breve termine perché lo scambio di denaro può essere assai rapido.Il manager è, invece, un professionista che deve rispondere agli azionisti circa le proprie decisioni gestionali e che, dovendo garantire – in termini di dividendi – la remunerazione degli investimenti altrui, è costretto a ragionare con orizzonti temporali di breve e medio termine perché l’azionista potrebbe non accettare investimenti i cui ritorni siano differiti troppo avanti nel tempo.L’imprenditore, infine, gestisce un’azienda di cui è proprietario e reperisce e gestisce le risorse necessarie a produrre beni e servizi il cui valore finale sia complessivamente maggiore di quello delle materie prime e delle risorse impiegate. Egli, fatta salva la necessità di garantire la propria sopravvivenza, può ritenere tollerabili orizzonti temporali più lunghi rispetto al finanziere e al manager perché, in definitiva, risponde solo a se stesso ed ai propri soci, cioè a persone che stanno “sulla sua stessa barca”. L’imprenditore può permettersi anche di rinunciare ai guadagni di oggi per lasciare “qualcosa in più” ai figli.Passando ad una analisi storica delle tre figure, possiamo dire che l’imprenditore esiste da quando esiste una qualche forma di civiltà: già nella preistoria il cacciatore si procurava le prede e le scambiava con gli utensili realizzati dall’artigiano e con i prodotti dell’agricoltore. Tutti è tre questi nostri progenitori gestivano un processo produttivo i cui risultati (la cacciagione, gli utensili e i prodotti della terra) avevano un valore superiore a quello degli elementi originari.Il finanziere è nato molti secoli dopo e già da subito traeva la sua unica ragion d’essere nella necessità degli imprenditori di reperire denaro – cioè risorse finanziarie – al fine di consentire lo svolgimento di una produzione ormai troppo onerosa per essere sostenuta solo dalle risorse dell’imprenditore stesso.Il manager è la figura più recente: egli è nato per gestire i soldi di persone che, spesso senza conoscersi, hanno deciso di investire in un’azienda concorrendo al capitale di rischio senza avere le competenze e/o la forza di gestirla direttamente.Come si può comprendere, sia il manager, sia il finanziere sono nati a servizio dell’azienda mentre l’imprenditore è il “padre ed il tutore” nonché parte dell’azienda stessa.Tralasciando il manager e limitandoci ad analizzare il ruolo del finanziere, siamo costretti ad entrare in argomenti più tecnici ma necessari a comprendere la crisi in atto.Si è soliti paragonare l’azienda ad un organismo vivente i cui organi sono i suoi processi. Laddove per processo si intende un insieme di attività correlate o interagenti che trasformano elementi in ingresso in elementi in uscita. La produzione è il più classico dei processi, in quanto trasforma le materie prime nei prodotti finiti che il cliente acquista. Essa genera il cosiddetto valore aggiunto, cioè la differenza tra il valore del prodotto finale ed il valore delle materie prime in essa impiegate.In generale tale valore aggiunto è positivo. Quando ciò non accade, qualcosa non funziona e, sul medio periodo, l’organismo-azienda si ammalerà e morirà. È quanto sta capitando ad Alitalia, un’azienda che eroga un buon servizio il quale, però, non può essere venduto al prezzo necessario per coprire i costi.La produzione, tuttavia, non è il solo processo aziendale; è semplicemente il più importante perché genera valore aggiunto e crea il prodotto o il servizio, quello che – opportunamente scambiato con il cliente – garantisce la remunerazione del rischio assunto dall’imprenditore (o dagli azionisti). Si è soliti individuare altri processi, detti di supporto alla produzione: quello direzionale, che è il cervello dell’organismo azienda; quello commerciale, che propizia lo scambio del prodotto con il cliente; quello di approvvigionamento, che garantisce l’afflusso di materie prime; quello di gestione delle risorse (umane e strumentali), che garantisce la corretta manutenzione dei vari organi di questa strana entità; infine vi è il processo finanziario, che garantisce l’afflusso di denaro necessario a mandare avanti tutti i processi.Al pari di un organismo vivente, l’azienda non può permettersi gravi malattie in nessuno dei suoi processi/organi. Tuttavia dovrebbe apparire evidente a tutti che i cosiddetti processi di supporto, oltre a non generare valore aggiunto in quanto consumano risorse senza creare prodotti o servizi da scambiare con il cliente, trovano la loro ragione d’essere esclusivamente come “sostegno” al processo principale: quello che realizza il prodotto.Credo che, a questo punto, appaia chiara la chiave di lettura che chi scrive dà della crisi finanziaria attuale. Negli ultimi anni, la finanza ha assunto una centralità che non gli è mai stata propria e che ha posto l’azienda in un piano secondario: la produzione non era più la variabile principale ma un’occasione per “maneggiare soldi” attraverso il processo finanziario. Per troppi sedicenti imprenditori (in realtà finanzieri se non, addirittura, speculatori) non conta affatto ciò che si produce ma la compravendita di denaro. In buona sostanza il mezzo è diventato fine ed il fine è diventato occasione.La crisi finanziaria dunque, a mio avviso, non ha radici macroeconomiche (legate cioè alle leggi dell’economia) ma microeconomiche, cioè aziendali. Essa è semplicemente la sommatoria di tante crisi microeconomiche dovute ad un errore culturale gravissimo che – per pura miopia – ha condotto troppi operatori economici a ricercare facili guadagni nella finanza, dimenticando le buone prassi aziendali. Ciò è avvenuto sia nell’industria manifatturiera, sia nei servizi (che comprendono il commercio), sia in molte banche tradizionali.Quella che viviamo non né la crisi del liberismo, né la crisi del mercato, è semplicemente l’effetto della degenerazione di una cultura sbagliata che ha scambiato i mezzi per fini. Nessuna azienda potrebbe sopravvivere a lungo se il processo di approvvigionamento prendesse il sopravvento sulla produzione: essa morirebbe per i magazzini troppo pieni o perché acquista materie prime qualitativamente inutilizzabili. Non si comprende quindi perché si possa sperare di farla franca se si pretende di sottomettere la produzione di beni e servizi alle esigenze della finanza e non viceversa.
Marco Benucci
Vicepresidente Nazionale dei Giovani Imprenditori di Confcommercio

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